Erasmo da Rotterdam - Elogio della follia (epistola dedicatoria a Thomas More)
Brani scelti: ERASMO DA ROTTERDAM, Elogio della follia (epistola dedicatoria -a Thomas More), 1508.
Erasmo di Roterdamo al suo Tommaso Moro salute.
Ritornando ultimamente dall'Italia in Inghilterra, per non ispendere tutto il tempo che dovetti cavalcare in vane fole, ho stimato bene di ricrearmi di tratto in tratto, o col volger l'animo a' nostri co muni studj, o col richiamarmi alla memoria i dottissimi insieme e dolcissimi amici, che costì lasciato avea nel partire. Tu il primo, o caro Moro, mi ti offerivi tra questi agli occhi, e sebbene tanto lontano, io pur ti vedeva, e teco favellava con quel piacere che godea quando eri presente, e di cui giuro non avere mai avuto in mia vita il maggiore.
Avendo dunque giudicato d'occuparmi in qualche cosa, nè d'altra parte sembrandomi tempo da gravi pensieri, mi avvisai di scherzare alquanto, facendo l'Elogio della Pazzia. Qual Minerva, mi dirai, ti ha inspirato un tal pensiero? ecco: Presemi in prima tal fantasia pel tuo gentilizio cognome, il quale è tanto alla Moria vicino, quanto da essa tu sei. realmente lontano, anzi lontanissimo a comune Suffràgio. Poi, mi rincorai, che questo scherzo d'ingegno meritar potesse particolarmente la tua approvazione, se è vero che di siffatte bagattelle, non plebee al certo, a quel che me ne pare, nè insulse affatto per sè stesse, dilettando ti vai, e qual altro Democrito miri e tratti come riso le umane vicende. Sebbene poi per la singolare perspicacia del tuo ingegno sii al certo di gran lunga superiore al rimanente degli uomini, pure per l'incredibile soavità del tuo costume, e per l'affabilità tua particolare, sai e godi (per usar l'espression di Tiberio Cesare) esser l'uomo di tutte le ore.
Or ti piacerà dunque non solo d'accogliere questa picciola declamazione come un presente di un tuo buon amico, ma di prenderla ancora sotto il tuo patrocinio, come cosa a te sacra, e più tua certamente che mia. Imperocché prevedo benissimo che non mancheranno detrattori, che le si dichiareran contro, qualificandola come una frivolezza indegna di un teologo, e come una satira contraria alla cristiana moderazione: e schiamazzando inoltre declameranno contro di me, come colui, che risusciti l'antica commedia, e si faccia qual nuovo Luciano a morder tutti senza risparmiarla. Ma pure quei che disgustansi della bassezza dell'argomento e del suo ridicolo, dovrebbero por mente, che non ne sono io al certo l'inventore, e che anzi questo è un uso già da gran tempo osservato da sommi autori. Imperocché molti secoli prima ha scritto Omero la guerra delle ranocchie e de' sorci; Virgilio ha cantato della zanzara e della torta; Ovidio della noce; Policrate anch'esso fe' l'elogio di Busiride, cui poscia corresse Isocrate; Glaucone lodò l'ingiustizia, e Favorino Tersite e la febbre quartana; Sinesio la calvezza e Luciano la mosca e i parassiti. Da ultimo Seneca scherzò sull'apoteosi di Claudio; Plutarco scrisse il dialogo di Grillo con Ulisse; Luciano ed Apuleio parlarono dell'asino, e un tale al dir di San Girolamo, stese il testamento del porco.
Faccian conto pertanto, questi censori, che io così per divertimento abbia giocato agli scacchi, o se meglio lor piace, abbia come un fanciullo cavalcato sopra una lunga canna. E a dir vero, che iniquità non è ella, che permettendosi ad ogni condizion di persone i suoi passatempi, si cerchi poi di vietarli tutti al letterato negli studj suoi? Massime se gli scherzi traggan seco del serio, e in guisa tale vengan maneggiate le facezie, che chi legge, per poco che abbia buon naso, ne ricavi vantaggio assai più che da gravi e luminosi argomenti. Come a dire quando da alcuno con lunga orazione, a grande stento e fatica di schiena tessuta di tanti pezzi qua e là rubati, si encomia la rettorica o la filosofia; da un altro scrivonsi le lodi di un qualche principe, da un altro si pronuncia un bel discorso per animare alla guerra contro i Turchi; da un altro si fanno oroscopi, e predizioni tratte dai pianeti; da tal altro si fanno quistioni di lana caprina e futilissime ricerche. D'altra parte siccome non havvi cosa più nauseante che il trattar con ischerzo gravi materie, così riesce assai giocondo il trattar le frascherie con un'aria di serietà e d'importanza.
Del resto io lascio che mi giudichino gli altri; ma pure, se il mio amor proprio non m'inganna, sembrami d'aver lodato la Pazzia non affatto da pazzo. Quanto poi all'imputazion del sarcasmo, risponderò: che si è permessa in ogni tempo una certa libertà di stile, a motteggiare impunemente l'ordinaria vita degli uomini, purché questa libertà non degeneri in accanimento. Oh quanto ammiro l'odierna delicatezza delle orecchie, che omai non possono altro sopportare che titoli fastosi! Si vedono inoltre alcuni così zelanti per la religione, i quali soffrirebbero piuttosto le bestemmie più orribili contro Gesù Cristo, che il minimo scherzo contro il papa o contro il principe, soprattutto quando trattasi d'interesse. E poi dimando io di grazia se debba stimarsi che morda, o pure anzi che insegni ed instruisca colui, che il vivere umano censuri in maniera, che niuno tolga personalmente di mira? Se ciò non fosse, verrei io stesso a fare di me la satira quante volte parlo d'altrui. Oltre a ciò, colui che declama generalmente contro tutte le diverse condizioni, mostra di non prendersela cogli uomini, ma bensí coi loro difetti.
Se v'avrà dunque chi chiamisi offeso, verrà egli così a scoprirsi d'essere colpevole, o di temere di passar per tale. Ben più liberamente e più mordacemente ha motteggiato in questo genere S. Girolamo, il quale non si è fatto scrupolo di nominare talvolta fino le persone. Ma rispetto a noi, oltre al tacere assolutamente i nomi, abbiamo temperato lo stile in modo, che il giudizioso leggitore vedrà facilmente, che lo scopo nostro fa di divertire anzi che di mordere. Nè ad esempio di Giovenale abbiam creduto di dover sommovere l'occulta sentina de' vizj dell'umanità, nè svelare le sue infamie, ma il solo ridicolo ci siamo studiati di mettere in mostra. Se dopo tutto ciò v'ha tuttavia chi borbotti e s'adiri, costui almeno badi, che bello è il venir biasimato dalla Pazzia, la quale poiché tratta abbiamo in iscena, e messala a parlare, ci è stato d'uopo porle in bocca sensi e parole, quali al suo carattere più stanno bene. Ma a che tante cose teco, che sei un avvocato sí bravo, da ottimamente difendere cause anco non buone? Senz'altro dunque sta sano, o eloquentissimo Moro, e prendi animosamente le parti della tua Pazzia. Di Villa, il 10 di giugno 1508.