Beppe Cantele - Gadda e La cognizione del dolore
E a cosa volete che pensi quando mi compare la sovraccoperta dello splendido Supercorallo Einaudi che racchiude il magistrale capolavoro gaddiano ...
ch'è una strepitosa presa in giro della milanesità borghese e benestante di cui lui fu sì figlio ma che tanto detestava per l'assurdo perbenismo che lo costrinse a diventare Gadda? Un libro di cui molto si può leggere in giro, basta come sempre digitare su google qualche lemma, magari il titolo per esteso. Vi comparirà la voce vichipediana, ad esempio: "La cognizione del dolore è un romanzo incompiuto di Carlo Emilio Gadda": beh su questo potrebbero aprirsi discussioni infinite: non potendo più chiedere al maestro gaddiano per eccellenza, il compianto Dante Isella, potremmo scomodare l'altrettanto autorevole voce di Emilio Manzotti (lui della Cognizione sa semplicemente tutto) che ne ha curato l'edizione critica (Struzzi Einaudi, 1987, un capolavoro di follia: quasi più folle l'Emilio del Carl'Emilio, lo giuro): ma il discorso si farebbe lungo e fuorviante e lasciamolo stare, e poi non è a questo che penso.
Vi comparirà che trattasi di romanzo autobiografico, che fu pubblicato a puntate su "Letteratura" alla fine degli anni Trenta e primi Quaranta. E vabbé, neppure a questo penso. Approfondendo un po', ma neanche tanto, scopriremo che la quarta edizione, sempre un superbo Supercorallo (tra le collane più belle dell'editoria italiana del Novecento, tanto che l'Einaudi odierna nemmeno se lo sogna di dismetterla, come ha fatto con altre pur straordinarie collane), è notevolmente ampliata di due capitoli: dal che si pone in serio dubbio la teoria vichipediana dell'incompiutezza del romanzo (una follia che mai si applicherebbe, se non nel nome, ad esempio alla Pietà Rondanini o alla Pietà Bandini di Michelangiolo).
Apprenderemo anche che il Gadda - che con gli editori ebbe un rapporto non facile: chiedere a Sansoni, a Vallecchi, oppure a Giancarlo Roscioni per la Einaudi - curò maniacalmente la gestazione dei vari "tratti" (vogliamo chiamarle parti o capitoli?) del suo romanzo. E che si giunse, stavolta sì con l'intervento deciso e risoluto della redazione Einaudi nella persona di Roscioni, all'edizione che qui sotto compare: un successo strepitoso uscito dai torchi in prima edizione il 24 aprile 1963 in undicimila copie "bruciate" in pochi mesi, una seconda edizione rectius ristampa che se non ricordo male è di giugno di altre quattordicimila copie, per finire l'anno 1963 con ben quarantacinquemila copie stampate.
La bella edizione che si diceva, con quella legatura in tela, quei piatti stupendamente piatti che quando qualche piatto si deformava veniva mandato al macero, quella carta di bella grammatura (la grammatura cambia dalla prima alla seconda stampa, ma qui siamo già dentro la mia mania...), quella sovraccoperta che solo a pensarla si sporca, con quadro del Bellotto; il saggio introduttivo memorabile di Gianfranco Contini; la densa fantasmagoria in otto pagine che Gadda antepone al testo e intitola L'Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l'autore. Ma vi sembra che io stia pensando a tutto questo?
No, io purtroppo per me, sto pensando a quella preedizione in cento copie fuori commercio non numerate, un Supercorallo pure quello (pp. 188, cm. 22,5 X 14, vedetevi Gambetti-Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano), ma con la sopracoperta recante foto in bianco e nero del Carlo Emilio, nel suo vestito che voglio pensare blu, incravattato e assiso su balaustra in marmo. Un libro del 1963, ma senza note editoriali di datazione: e come se esso fosse stato fin dalla sua primissima stampa destinato all'eternità. Sto pensando a queste copie che Einaudi fece stampare per i giurati del "Prix International de Litterature", nato dalla mente di Carlos Barral, difeso e diffuso da Giulio Einaudi, e che il Nostro si aggiudicò proprio nel 1963.
Eccolo, tutto qua, secondo quella legge ben nota al nostro Montaigne (Essais, I, XXI), il mio pensiero pensato che tende inesorabilmente a farsi tragica realtà di non poterne mai possedere una copia.
Beppe Cantele
da La Rivista
Libri antichi di letteratura
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