Il libro ideale secondo Antonio Baldini, con prefazione di Beppe Cantele
Come debba essere il libro ideale è il cruccio e la chimera di ogni bibliofilo. Ma ancor prima lo è di chi i libri li fa: del tipografo e dell'editore.
Il lavoro dell'editore, a dire il vero, oggigiorno è assai cambiato, e spesso non riguarda più il paratesto, ma mille altre scartoffie che sembrano oramai, nel mondo inutilmente complesso d'oggi, necessarie. Ma non mancano, oggi e soprattutto ieri, esempi straordinari di editori stampatori, che univano l'essenza dell'uno e dell'altro lavoro e che forse sarebbe il modo migliore di far venire al mondo il libro. Un nome? Olschki.
Il lavoro del tipografo è invece proprio di colui che deve mettere insieme carta inchiostro carattere legatura e testo (secondo il "Credo" di colui che è da molti ritenuto il più grande stampatore del Novecento, Giovanni Mardersteig).
E mettere insieme questi elementi in un tutto coerente per farne un bel libro (semplicemente un bel libro: ma su questo binomio potremmo scrivere molto), è dono di pochi: occorre prima immaginarlo, poi cercare gli ingredienti (tutto quel che serve, dalla bella carta all'inchiostro di ottima tenuta), poi porre maniacale attenzione agli egredienti (tutto ciò che non ci deve assolutamente essere nel libro: e anche qua si farebbe lunga la lista), poi procedere a molteplici prove, prima di dar fuori l'opera. Che sarà immodificabile. E che quindi deve essere il più possibile perfetta.
Nel Novecento - il secolo straordinario della grafica e del design che ebbe nel libro una delle proprie naturali espressioni - alcuni canoni classici vennero abbandonati, si tentarono altre vie sia per quanto attiene l'impaginazione e il tipo di carattere, sia soprattutto a riguardo della struttura delle copertine: ma ricordiamo essenzialmente chi non ha tradito (anzi, ha valorizzato e migliorato) quei canoni eterni della impostazione della pagina da stampa, ben descritti da un maestro indiscusso di quest'arte, Stanley Morison (tipografo, storico della stampa, colui che disegnò il carattere novecentesco più famoso e usato al mondo, il Times New Roman, che esordì nelle pagine del prestigioso The Times nel 1932), il quale sosteneva che la tipografia dev'essere al totale servizio del lettore e avere come unico scopo quello di rendere la lettura facile, riposante e piacevole. In altri termini: l'enorme difficoltà della semplicità.
Ricordiamo - si diceva - alcuni mostri sacri che hanno messo la gioia della loro inventiva al servizio del libro: Bruno Munari, Albe Steiner, Bob Noorda.
Antonio Baldini, una delle penne più felici del secolo scorso, ci dà, nel brano che qui sotto riproponiamo, un bell'esempio di come debba essere un libro fatto bene: davvero una lettura interessante per i bibliofili. Ora, a dirla tutta, qualcosa del libro che ne esce, la cambierei: per esempio io non userei mai per un libro che riposi gli occhi e inviti alla lettura, un carattere bodoniano, troppo contrastato. Piuttosto sceglierei un Garamond, magari quello di Simoncini, o il Bembo di Morison, o il Dante di Mardersteig, insomma un carattere tondo di matrice cinquecentesca. Ma sono quisquilie... godetevi il brano! Beppe Cantele
ANTONIO BALDINI, Un libro di 200 pagine di 300 grammi.
Il giorno che mi venisse fatto d'imbroccare una quaderna mi propongo di scrivere un libro (ma questo è il meno), per avere il piacere di stamparlo a mio modo. Comincerei coll'andare in cerca delle cartiere italiane più rinomate, e anche di quelle che ancora hanno da farsi un nome, per metter le mani sopra un tipo di carta ideale: una carta pura, lieve e consistente; d'un giusto peso, perché ho in dispetto i libri che sono troppo più leggeri di quel che dànno a vedere e quando vai per prenderli ti si sollevano in mano come ballerine, né d'altra parte amo il libro che pel suo peso tenda troppo a terra; una carta dolce al volgere, ma non così morbida che ogni pagina, volgendola, non vada a cader esattamente al paro delle altre; d'un colore di neve al sole, che penda un poco nell'avorio e nel miele, piuttosto che nell'azzurrino, nel grigio e nel rossiccio, di modo che la stampa vi faccia spicco e al tempo stesso vi si riposi, grata allo sguardo. Un bel tono di carta aiuta anch'esso l'immaginazione.
Le proporzioni del formato le prenderemo con ogni accuratezza, quasi quelle d'una bella finestra, che non pecchino né per largo né per alto; ma non saprei qui nascondere la mia vivissima antipatia pei formati troppo quadri, e, dovendo peccare, amerei peccare piuttosto nell'alto che dà sempre una certa distinzione e alterezza. In ogni modo quello del mio libro non dovrebbe essere un formato da entrare in tasca, perché non potrei soffrire d'essere tirato fuori in tram o sulle panche d'aspetto d'una Pretura. Vorrei essere letto a tavolino.
La copertina vuol essere d'una carta resistente, ma molto leggera; d'un colore umile, rimesso (verde canna, rosa stinto, lavagna chiaro o color lupino), dove i caratteri facciano una vista sobria, contegnosa e piuttosto severa. Dio ne scampi dal libro che si concede fin dalla copertina e che pretende richiamare l'attenzione con ornati e colori chiassosi. Un piccolo segno decorativo coll'impresa dello stampatore, una cetra, un grifone, una grottesca pur che sia, lo si ammette però ben volentieri, come una serratura o un sigillo che accresca il riserbo e la nobiltà dell'opera.
Trovata la carta pel di dentro e il di fuori, bisognerà allungare viaggio per trovare i tipi di stampa più adatti a un'opera di riposata lettura. Ho l'idea che in qualche vecchia tipografia di provincia, nelle Marche, per esempio, o nella Romagna, s'abbia a trovare quello che fa al caso nostro: qualche impolverato fondo di stamperia pontificia coi tipi che servirono ai libri del Monti, del Perticari, dello Strocchi. Cercherei di fare amicizia con qualche tipografo vecchio del mestiere, e di farlo cantare. Gli pagherei da bere e da fumare e mi farei in breve ora quella competenza che mi manca: imparerei la differenza che corre tra un tipo e l'altro, la varia indole e il vario effetto di ciascuno. Siccome di tipografi ne interrogherei parecchi, finirei coll'impratichirmi anche dei vini. Penso che mi ci vorrebbero dei caratteri sul tipo dei bodoniani, d'un bel tondo e d'un bel chiaroscuro, con delle belle maiuscole e con dei corsivi bene intonati al tondo per le sentenze e le parti in versi che frammetterei al mio volume.
Gli spazi tra i vari capitoli, tra le parti di ciascun capitolo, tra riga e riga, e le rientrature dei capoversi dovrebbero essere calcolate al millimetro con molte prove e riprove: e siccome il modello dal quale ci si deve scostare quanto meno è possibile è sempre la pagina piena, senza neanche un a capo e nessun altro segno di distrazione (corsivi, numeri romani, diciture in testa e note a piè di pagina), le pagine dovrebbero finire coll'avere respiro solo dagli spazi tra le righe e le lettere. La differenza di un mezzo millimetro può aerare una pagina troppo chiusa, come la differenza d'un altro mezzo millimetro può metterla, come si dice, in corrente e toglierle ogni solidità. Ogni pagina sarebbe da me riveduta sette volte con una buona lente d'ingrandimento, perché bastano tre lettere un po' deteriorate a far brutto l'insieme di tutta una pagina, e alle volte basta il ripetersi d'un intervallo tra due parole per quattro o cinque righe alla stessa altezza o in istretta scala perché tutta la pagina sembri in procinto di franare.
L'armonia e la compostezza d'una pagina stampata dipendono pure in gran parte dal margine che l'incornicia. Il margine può far grande e piccola la pagina indipendentemente dal formato: bisogna tener presente che una pagina troppo stretta mette fretta e finisce col comunicare un certo disagio al lettore e che una pagina troppo grande può ingenerare noia anche nella lettura del testo più allegro. Un margine ben calcolato facilita, stuzzica la lettura; un foglio tutto pieno di stampa l'affatica e la scoraggia; un'inquadratura troppo grandiosa finisce col distrarla.
Sarete stati qualche volta nello studio d'un pittore. Avrete visto le storie che fanno prima di lasciarvi accomodare avanti a un quadro: e l'appoggiano in terra, e lo mettono sopra una seggiola, e poi sopra il cavalletto e poi stiran le gambe del cavalletto e poi gli dànno un'altra inclinazione, e poi tirano una tenda, e poi vi prendono per un braccio, vi menan di qua e di là, non sono mai contenti. Sul principio sembrano manìe; ma poi v'accorgete ch'essi avevano piena ragione e che l'impressione che vi fa l'opera da quel punto e in quelle condizioni di luce è di gran lunga la migliore. Anche il buono stampatore con tutte le astuzie dell'arte e del mestiere deve mettervi la pagina in così buona luce che l'occhio vi ritrovi istintivamente il taglio e quella certa allegra animazione che invogliano a entrarci dentro. Il libro più appetitoso del mondo, che forse è il Viaggio sentimentale di Sterne, vi farebbe andar via la voglia di leggerlo se lo vedeste impresso in grandi paginone senza margine, con le righe lunghe lunghe da un capo all'altro, che in ognuna c'entrasse un periodo; e il libro più noioso del mondo, che forse è il Galateo di Giovanni Della Casa, stampato con un bell'inchiostro, in paginette bene equilibrate, con delle belle maiuscole nei capoversi, chi sa che non riuscireste a leggerlo invece con qualche diletto.
Gl'inchiostri dovrebbero essere di una nitidezza e d'uno splendore unico, che i nostri nonni potessero leggere il libro senza occhiali, e anche i ciechi, passandoci su una mano, potessero capire a un di presso di che cosa si tratta, talmente rilevate e schiette e bene impresse avrebbero da esser le parole. Il negrore dell'inchiostro e il bianco della carta dovrebbero legarsi naturalmente in un tutto parlante, cordiale, irresistibile.
Per la dedica e la prima faccia del libro mi ci vorrebbero caratteri, nello stesso tipo, d'una certa grandezza e direi quasi solennità epigrafica. La dedica andrebbe fatta a qualche gran Principe o gran Capitano amante delle lettere, da poterci mettere dietro una filza di titoli rimbombanti da stamparsi in tutte maiuscole, con una pompàtica perorazione sul tipo di quelle del buon tempo antico. Per contro, il frontespizio dovrebbe essere, come già s'è detto, d'un'estrema semplicità, col titolo seguìto dal nome e cognome dell'autore, la città e l'anno della stampa, sempre nell'indole del contesto, su quella carta e con quell'impresa che si son dette; ma quelle poche parole dovrebbero essere collocate con un tal senso della misura e del decoro che il libro per quanto lo si avesse sott'occhio non dovrebbe venire mai a noia, anzi, ogni volta, dovrebbe incoraggiar la mano a risfogliarlo. Un fregio, ma che fosse la Modestia in persona, dovrebbe chiudere in un rettangolo onesto e leggero questi caratteri piuttosto scuretti della copertina; e come ultima attrattiva, nel rovescio della copertina ci dovrebbe essere segnato il prezzo in paoli.
Quanto a lunghezza, il libro ve lo do lungo sulle duecento pagine: la giusta media di Paul et Virginie, di Lazarillo de Tormes, delle Metamorphoseon di Lucio Apuleio, delle Mie prigioni e di altre meraviglie dell'arte narrativa: tale insomma da potersi leggere comodamente dentro un pomeriggio d'estate, e da farci magari entrar a lettura finita due passi prima di cena.
(tratto da ANTONIO BALDINI, Le scale di servizio. Introduzione al libro e alla lettura, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1971, pp. 3-8)