Umberto Eco - Perché i libri allungano la nostra vita
Brani scelti: UMBERTO ECO, La bustina di Minerva (Milano, Bompiani 2000).
Quando oggi si leggono articoli preoccupati per l'avvenire dell'intelligenza umana di fronte a nuove macchine che si apprestano a sostituire la nostra memoria, si avverte un'aria di famiglia. Chi ne sa qualcosa riconosce subito quel passo del Fedro platonico, citato innumerevoli volte, in cui il faraone, al dio Toth inventore della scrittura, chiede preoccupato se quel diabolico dispositivo non renderà l'uomo disadatto a ricordare, e quindi a pensare.
Lo stesso moto di terrore deve aver colto chi ha visto per la prima volta una ruota. Avrà pensato che avremmo disimparato a camminare. Forse gli uomini di quei tempi erano più dotati di noi per compiere maratone nei deserti e nelle steppe, ma morivano prima e oggi sarebbero riformati al primo distretto militare. Con ciò non voglio dire che quindi non ci dobbiamo preoccupare di nulla e che avremo una bella e sana umanità abituata a far merende sull'erba a Chenobyl: caso mai la scrittura ci ha fatto più abili a capire quando dobbiamo fermarci, e chi non sa fermarsi è analfabeta, anche se va su quattro ruote.
Il disagio verso nuove forme di cattura della memoria si è presentato in ogni tempo. Di fronte ai libri a stampa, su cartaccia che dava l'idea che non avrebbe resistito per più di cinque o seicento anni, e con l'idea che quella roba poteva ormai andare per le mani di tutti, come la Bibbia di Lutero, i primi acquirenti spendevano una fortuna per far miniare i capilettera a mano, onde avere l'impressione di possedere ancora manoscritti su pergamena. Oggi quegli incunaboli miniati costano un occhio della testa, ma la verità è che i libri a stampa non avevano più bisogno di essere miniati. Che cosa ci abbiamo guadagnato? Che cosa ha guadagnato l'uomo con l'invenzione della scrittura, della stampa, delle memorie elettroniche?
Una volta Valentino Bompiani aveva fatto circolare un motto: "Un uomo che legge ne vale due." Detto da un editore potrebbe essere inteso solo come uno slogan indovinato, ma io penso significhi che la scrittura (in generale il linguaggio) allunga la vita. Sin dai tempi in cui la specie incominciava a emettere i suoi primi suoni significativi, le famiglie e le tribù hanno avuto bisogno dei vecchi. Forse prima non servivano e venivano buttati quando non erano più buoni per la caccia. Ma con il linguaggio i vecchi sono diventati la memoria della specie: si sedevano nella caverna, attorno al fuoco, e raccontavano quello che era accaduto (o si diceva fosse accaduto, ecco la funzione dei miti) prima che i giovani fossero nati. Prima che si iniziasse a coltivare questa memoria sociale, l'uomo nasceva senza esperienza, non faceva in tempo a farsela, e moriva. Dopo, un giovane di vent'anni era come se ne avesse vissuti cinquemila. I fatti accaduti prima di lui, e quello che avevano imparato gli anziani, entravano a far parte della sua memoria.
Oggi i libri sono i nostri vecchi. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all'analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissuto moltissime. Ricordiamo, insieme ai nostri giochi d'infanzia, quelli di Proust, abbiamo spasimato per il nostro amore ma anche per quello di Piramo e Tisbe, abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant'Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sheherazade.
A qualcuno tutto questo dà l'impressione che, appena nati, noi siamo già insopportabilmente anziani. Ma è più decrepito l'analfabeta (di origine o di ritorno), che patisce di arteriosclerosi sin da bambino, e non ricorda (perché non sa) che cosa sia accaduto alle Idi di Marzo. Naturalmente potremmo ricordare anche menzogne, ma leggere aiuta anche a discriminare. Non conoscendo i torti degli altri l'analfabeta non conosce neppure i propri diritti. Il libro è un'assicurazione sulla vita, una piccola anticipazione di immortalità. All'indietro (ahimè) anziché in avanti. Ma non si può avere tutto.