La retorica di Aristotele volgarizzata da Annibal Caro: equità ovvero discrezione
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Brani scelti: ANNIBAL CARO, Volgarizzamento della Retorica d'Aristotile libro I in: LEOPARDI, Crestomazia Italiana - La prosa, Torino, Einaudi N.U.E., 1968, P. 145-146.
La equità o discrezione, considerata in quanto all'ufficio del giudice
"L'altra spezie è l'equità, o la discrezione che si possa chiamare; la quale è quella che supplisce ai mancamenti della legge scritta, e dove non è particolare e propria legge. Perciocché quel che l'equità detta, è sembiante di quel che detta la giustizia: e dettato dell'equità s'intende quel giusto che non è compreso nella legge scritta. Questi mancamenti sogliono accader nelle leggi, parte contro la volontà degli ordinatori d'esse, parte di volontà loro. Contra lor volontà, quando non antiveggono ogni cosa; di volontà loro, quando non possono determinare sopra tutti gli accidenti che sogliono occorrere, ma son forzati a parlare in generale; non servendo questa generalità se non per il più delle volte: e così, quando lassano quelle cose che malagevolmente si posson determinare, per essere infinite. Come circa al morir con ferro; se si volesse tassare, non solamente la qualità delle ferite, ma la sorte dell'armi, e la quantità e la qualità del ferro. Perché non basteria la vita dell'uomo a voler specificare ogni minuzia. Essendo adunque la cosa di che la legge ha da parlare, indeterminata; e pur bisognando che le leggi si facciano; è necessario che le lor pronunzie siano semplici, e largamente scritte. Onde quando occorresse che qualcuno, avendo per avventura un dital di ferro, ed alzando la mano, percotesse un altro; secondo il rigor delle legge scritta, verrebbe condennato, e giudicato per ingiuriatore; ma riguardando alla verità, si deve giudicare che non abbia fatto ingiuria alcuna. E questo fa l'equità. Or se l'equità o la discrezione è quella che fa ciò che si è detto, già si possono chiaramente conoscere le cose che discretamente o indiscretamente si fanno. Officio di discreto uomo è di conoscer che gli errori non siano degni della medesima pena che l'ingiurie; né le sciaure, della medesima che gli errori. E sciaure si chiamano quelli accidenti che vengano fatti impensatamente, e senza malizia: e gli errori si dicono quelli dove corre il pensiero, e non la malizia. Ma ingiurie son quelle che si fanno con pensamento, e con malizia: perché concorrendovi il desiderio, bisogna che vi si adoperi la malizia. Offizio di discredito ancora è di perdonare alla fragilità degli uomini; ed aver l'occhio, non alla legge, ma al legislatore; non alle sue parole, ma alla sua intenzione; non a quel che l'uomo ha fatto, ma a quel che proponeva di fare; considerando, non una parte della cosa, ma il tutto; non qual sia ora la persona di chi si parla, ma qual sia stata sempre, o la più parte della sua vita. Deve anco un discredito ricordarsi più tosto del bene che del male".
da La Rivista
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