Perché Pasolini difendeva la lingua latina e il dialetto - di Carlo Picca
La formazione di Pasolini (1922–1975), è senza ombra di dubbio una formazione umanistica e letteraria piena e densa. È stato un poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo e giornalista italiano, considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, e probabilmente di sempre.
Laureatosi in Lettere a Bologna nel 1945, per tutta la sua vita fu al contempo vorace lettore, fruitore e creatore di ogni forma di espressione linguistica, letteraria e artistica in generale. Pasolini aveva un senso alto della letteratura e in primis del codice linguistico, della sua forza, che poteva essere espressione rivelatrice di una vita che andava vissuta oltre il consumismo ed il perbenismo.
Questa idea alta della letteratura e della lingua costituiscono un punto decisivo per tutta la sua attività intellettuale. Idea che attraversava senza soluzione di continuità il mondo dei codici linguistici, dal latino al dialetto. La perdita della speranza nell'ultimo Pasolini si percepisce anche nelle sue considerazioni sulla lingua e sulla possibilità di utilizzarla a fini ricreativi. Egli vedeva l'italiano contemporaneo sempre più unitario per merito della televisione, dei giornali e delle infrastrutture, e con un nuovo centro linguistico, non più letterario, ma tecnico o tecnologico, che individuava in Milano.
Una lingua omologata e omologante alla quale si poteva opporre il senso profondo della lingua latina o il senso vero ed esistenziale di quella dialettale. La sua idea di lingua latina esprimeva proprio un senso di opposizione all'appiattimento linguistico industriale. Era favorevole infatti all'insegnamento del latino nelle medie ma solo attraverso una riforma radicale della scuola.
Era convinto infatti che il latino che si insegna a scuola sia un'offesa alla tradizione, frutto del perbenismo piccolo-borghese e accademico. Sotto tutta la cultura dominante, aleggia questo latino piccolo e privilegio di cultura, frutto della scelta della classe dirigente che non vuole difendere il passato ma solo in definitiva ridurlo ai minimi termini, se non perfino banalizzarlo. Perché invece, studiare il latino a scuola, ma a pieno, equivale radicalmente ad altro rispetto alla cultura di massa. Pasolini sentiva un senso profondo nei confronti del passato, cioè egli era per conoscere e amare il nostro passato, contro la ferocia speculativa del nuovo capitalismo, che non ama nulla, non rispetta nulla, non conosce nulla.
Il povero latino delle medie è un primo, minimo mezzo di conoscenza di quella nostra storia che la ferocia capitalista cerca di mistificare, facendola sua. È perciò, secondo me, un errore voler abolire l'insegnamento del latino: un errore come ogni tattica. Lo scacchiere della lotta è immenso e complesso: il latino è solo apparentemente un'arma del nemico.
Di pari passo, in Pasolini va anche l'amore e l'attenzione per la lingua dialettale. Il poeta di Casarsa era convinto della sua fondamentale importanza per calarsi nella realtà esistenziale degli uomini oltre ogni tendenza ad omologarli a una realtà asettica e industriale. Questa convinzione era ben presente in lui già quando scrisse Ragazzi di vita (1955), il suo romanzo sul mondo delle borgate e i quartieri periferici di Roma. In quest'opera manca un protagonista, e la vicenda si regge su una serie di personaggi, ridotti spesso a puri nomi, intercambiabili tra loro, quasi come marionette, condannate tutte ad un tragico destino, a cui vanno incontro con quasi totale incoscienza.
Grazie al dialetto, la narrazione si presenta fluida e veloce, la sintassi è ridotta all'essenziale, i periodi sono brevi e il loro ordine è paratattico, con frequenti periodi composti da due sole proposizioni coordinate dove rara è la subordinazione. Questo romanzo è un'attentissima documentazione linguistica, dove la voce del narratore si serve di un italiano assai schematico, mentre i personaggi parlano direttamente in un romanesco pieno di elementi spuri, carico di deformazioni e di stravolgimenti.
Tenuto sempre a un livello basso, il dialetto non viene usato per dare immagini ma per far esprimere a pieno i personaggi nella loro verità, in azione ed assoluta mimesi ambientale. Il latino ed il dialetto come difesa per non abiurare il proprio modello culturale e umano, in antitesi al nuovo modello aziendale, industriale, televisivo che, essendo la classe dominante a creare e a volere, tende ad omologare. Codici linguistici come forma di resistenza contro l'omologazione culturale imperante finalizzata a “consumare” meglio. Codici linguistici che la nuova cultura industriale sapeva di dover mettere da parte per uniformare i cittadini al linguaggio dei consumatori, educati in primis dal linguaggio televisivo.
La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto « mezzo tecnico », ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l'ha scalfita, ma l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre …
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