Cesare Pavese - L'autodistruzione
Brani scelti: CESARE PAVESE, Il mestiere di vivere (Torino, Einaudi 1952).
Bisogna aver sentito la smania dell'autodistruzione. Non parlo del suicidio: gente come noi innamorata della vita, dell'imprevisto, del piacere di «raccontarla», non può arrivare al suicidio se non per imprudenza. E poi, il suicidio appare ormai come uno di quegli eroismi mitici, di quelle favolose affermazioni di una dignità dell'uomo davanti al destino, che interessano statuariamente, ma ci lasciano a noi.
L'autodistruttore è un tipo, insieme più disperato e utilitario. L'autodistruttore si sforza di scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà, e di favorire queste disposizioni all'annullamento, ricercandole, inebriandosene, godendole. L'autodistruttore è in definitiva più sicuro di sé di ogni vincitore del passato; egli sa che il filo dell'attaccamento all'indomani, al possibile, al prodigioso futuro, è un cavo più robusto - trattandosi dell'ultimo strattone - che non so quale fede o integrità.
L'autodistruttore è soprattutto un commediante e un padrone di sé. Egli non lascia nessuna opportunità di sentirsi e di provarsi. E un ottimista. Spera ogni cosa dalla vita, e si va accordando a rendere sotto le mani del caso futuro i suoni più acuti o significativi. L'autodistruttore non può sopportare la solitudine. Ma vive in un pericolo continuo; che lo sorprenda una smania di costruzione, di sistemazione, un imperativo morale. Allora soffre senza remissione, e potrebbe anche uccidersi.