Roberto Ridolfi - "Maggioranza" (dal Corriere della Sera del Primo settembre 1975)
Brani scelti: ROBERTO RIDOLFI, Maggioranza (dal Corriere della Sera del Primo Settembre 1975).
Tra le poche carte del mio trisavo Gino Capponi che mi sono rimaste in casa, ho care in special modo certe schede da lui compilate per la futura quinta impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca. Sono scritte tutte di suo pugno, con una mano ancor ferma; ciò che me le fa ritenere sicuramente anteriori al 1840, nel quale anno la vista gli si era annebbiata «al punto di non poter più leggere» e di scrivere non senza stento: proprio come sta accadendo ora al suo trisnipote. Le trovai in fondo a un cassetto della stessa scrivania sulla quale sto scrivendo questa prosuccia.
Una delle schede si riferisce a certa particolare accezione del vocabolo Maggioranza, con esempi spogliati da scrittori del buon secolo della lingua. Fra gli esempi c'è questo, che il candido Gino aveva trovato nel Tumulto dei Ciompi del suo omonimo antenato trecentesco: «Un calzolaio prese Carlo Strozzi per il petto, dicendo: Carlo, Carlo, le cose andranno altrimenti che tu non ti pensi e le vostre maggioranze al tutto conviene che si spengano». Codesto esempio fu poi riportato puntualmente nel volume nono del Vocabolario, uscito soltanto nel 1905 e cioè trent'anni dopo la morte di Gino, dove è preceduto da un esempio cavato dalle novelle di Franco Sacchetti: «Per maggioranza ci vogliono togliere il nostro». In ambi i casi, dunque, «maggioranza» vale (come avvertono i compilatori) «arroganza», o «prepotenza» e simili; forse anche «soperchieria».
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Quella scheda m'è tornata alla mente nei giorni scorsi, avendo appreso dalla nostra stampa quotidiana (e quindi, per la verità, di seconda mano) la stupefacente affermazione che il compagno Konstantin Zarodov, un autorevole caporione del partito comunista sovietico, avrebbe scritto nella autorevolissima «Pravda». La cosa ha fatto troppo scalpore per non essere ormai risaputa da tutti; però, se ai più distratti fosse sfuggita, sentite un poco che roba: «Maggioranza non è un concetto aritmetico, ma politico».
Presi alla sprovvista, c'è da restare senza fiato. «Maggioranza», nella nostra lingua (e i corrispondenti vocaboli in ciascuna delle altre), quando venga usata a significare la maggior parte degli individui che compongono un'assemblea o una nazione, oppure la maggior parte dei suffragi da loro espressi, è un anglolatinismo entrato in circolazione fra noi verso la fine del Settecento, insieme a tanti altri similmente derivati dalla vita politica della Gran Bretagna: la nazione che fu a tutti e a tutti dovrebbe essere ancora maestra di democrazia.
Perciò è chiaro e lampante che in questa moderna accezione (della quale lo stesso Vocabolario registra un solo esempio della prima metà dell'Ottocento, mentre il Tommaseo, pur suggerendoci di dire «i più» o «i meno», ricordò che «quando il maggiore o il minore numero è quasi personificato, allora forza è dire la maggioranza») il vocabolo non può né potrebbe in alcun modo avere che un valore strettamente numerico, cioè aritmetico. Volgarmente si dice che l'aritmetica non è una opinione; per il compagno Zarodov e per la «Pravda», che pubblica il suo articolo in un paese dove non muove foglia che il PCUS non voglia, si vede che invece lo è: e precisamente, appunto, un'opinione politica.
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Questa, a noi anime semplici, sembra una enormità, oppure una solenne freddura, o addirittura una cosa senza senso comune: a noi, dico, che non sappiamo troppo di leninismo. Ma dovremmo però sapere o ricordare certi memorabili fatti della storia contemporanea che sono appena di ieri, e neppure la memoria più labile dovrebbe averli dimenticati; o almeno guardare quelli che ci stanno sotto gli occhi proprio oggi: come sarebbero i fatti di Portogallo, dove una minoranza del diciotto per cento ha la strana pretesa di arraffare il potere alla maggioranza. Senza parere troppo indiscreti, non si potrebbe davvero desiderare una dimostrazione pratica più persuasiva della teoria enunciata dal compagno Zarodov: che, almeno quando è in gioco la famigerata «dittatura del proletariato», maggioranza non è un concetto aritmetico, ma politico.
Ma poi mi sembrerebbe ingiusto e pressoché intollerabile rovesciar questa broda tutta quanta addosso a chi si compiaccia di una tal dittatura (che brutta parola però!), e di vituperarlo o di cuculiarlo per un'uscita del genere. Diamine, è la vecchia, la solita storia che si ripete da che mondo è mondo: sempre la stessa storia, quella sciorinata dal Giusti in versi fin troppo noti, versi popolareschi, che però si richiamano a una verità eterna: Che i più tirano i meno è verità, / posto che sia nei più senno e virtù: / ma i meno, caro mio, tirano i più, / se i più trattiene inerzia o asinità.
Per mettere tutto a posto secondo ragione, basterebbe prendere «maggioranza» nell'antico e legittimo significato di «essere maggiore» (sia pure con la forza, la violenza e la prepotenza), di «essere più forte» (oppure più provveduto, più spregiudicato, più deciso); o nel significato di «superiorità», di «predominio» di «potere»: accezioni queste che i nostri venerabili Accademici registrarono tutte nel loro Vocabolario.
Ed ecco perché, appena intesa l'incredibile affermazione del compagno Zarodov, m'è tornata alla mente quella scheda di Gino Capponi, con le parole dette da un calzolaio a Carlo Strozzi nei primi impeti popolari che furono come il proemio del Tumulto dei Ciompi, e che sboccarono anch'essi in una «dittatura del proletariato» avanti lettera: «le vostre maggioranze al tutto conviene che si spengano».
Ricondotta a tale antica accezione, dunque, lo strabiliante discorso intorno al significato non aritmetico ma politico del vocabolo «maggioranza» torna (eccome!) a quadrare. Ma non so già se codesta accezione del vocabolo abbia corrispondenza in altre lingue, e nella russa in particolare; particolarissimamente, poi, non c'è neppur da pensare che del vocabolo il compagno Zarodov conoscesse quell'antico significato italiano che solo darebbe finalmente un senso ragionevole alle sue parole. Le quali, invece, nel nostro linguaggio moderno, hanno piuttosto un che di umoristico: umorismo nero, direi.
dal Corriere della Sera del Primo settembre 1975.
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